La tribù e il territorio. Le nuove identità digitali.
La tribù e il territorio. Le nuove identità digitali.
La mia giornata di oggi? Tre video riunioni di lavoro, due su Zoom e una su Skype. Una presentazione PowerPoint lavorata in remoto con un collega, alcune telefonate, alcune verifiche via App, alcune e-mail inviate e un occhio sulle varie chat aperte di WhatsApp. Prima di cena, un po’ di ginnastica grazie a un tutorial live e una videochiamata con amici su Instagram. Oggi possibile grazie alle applicazioni e grazie al Web. Mai come in questo periodo ci rendiamo conto dell’importanza della Rete intesa come infrastruttura, della sua tenuta benché sotto sforzo, della necessità di rafforzarla ed estenderla. Una dorsale che sorregge tutto, che ci consente di lavorare, di dialogare, di acquistare, di avere informazioni e godere di intrattenimento.
Chi siamo noi in rete? Come ci comportiamo? Quali effetti produce la rete sul nostro modo di vivere, di lavorare, di estrarre o produrre conoscenza? Le nostre identità sono molteplici, ciascuno di noi può essere autore e consumatore di contenuti, possiamo essere professionisti e al contempo fruitori di un corso di formazione, membri di un gruppo di volontariato o anche docenti, appassionati di cinema neorealistico come lettori di narrativa contemporanea. Sono sempre io, ma le mie identità in rete sono molteplici. La mia persona, la mia identità fisica è filtrata e rappresentata da una macchina e da uno schermo grazie ai quali ho imparato a conoscere altre persone, grazie ai quali comunico, condivido esperienze e sentimenti. Alcune di queste persone non le ho mai incontrate nella vita reale, eppure esistono per me ed io per loro, sono reali e presenti nella mia quotidianità, con alcuni di loro abbiamo formato dei gruppi online. Amici digitali, identità digitali. Eppure, le nostre relazioni sono autentiche poiché creano valore, danno risultati, o anche solo ci concedono svago e divertimento.
Le comunità virtuali esistono e hanno un senso, hanno obiettivi precisi, condividono idee e linguaggi, aspettative, emozioni, spesso anche denaro. Costruiscono scenari e immaginari. A studiarle ci pensa l’antropologia digitale, che fa dell’uomo nei territori digitali l’oggetto degli studi. L’uomo che usa device, applicazioni e tecnologie per interagire con altri. L’etnologa digitale Alice Avallone in un recente articolo riassume la storia di questa nuova disciplina che ha iniziato a diffondersi a partire dalla seconda metà degli anni ’90. Studi che si rivelano sempre più importanti e decisivi, anche ai fini di investimenti tecnologici.
Mentre scrivo Spotify mi informa che sta creando una playlist solo per me. Sta tracciando i miei gusti, crea playlist sulla base di brani già ricercati e ascoltati. Ciascuno di noi in rete lascia moltissime tracce, ricorrenti o occasionali, miliardi di small data che vanno a costruire trend, tendenze, scenari, possibilità. Informazioni importantissime per chi fa marketing: comprendere bisogni e desideri che stanno alla base di comportamenti di relazione e di consumo si rivela fondamentale, come lo è scoprire le modalità di consumo, l’utilizzo di prodotti e servizi, le modifiche che i consumatori apportano a ciò che acquistano. Ne consegue, come ovvio, il sapere prevedere le idee che verranno e pianificare investimenti, ma anche prevedere l’emersione di nuovi movimenti artistici, religiosi, politici, sociali. Nuove chiavi di lettura per leggere la società in cui viviamo e le relazioni che instauriamo.
Ciascuno di noi è (anche) i bisogni che esprime. In quanto utenti digitali esprimiamo bisogni digitali, primo fra tutti l’essere connessi. Essere social, un minuto più tardi. Condivisioni, esperienze, scatti, commenti, emulazioni, sentimenti, community che nascono e altre che chiudono. E bisogni inconsci e profondi: se i miei stati hanno pochi “like” la mia autostima può calare, posso sentirmi esclusa, posso apparire meno interessante di quanto creda di essere. Un discorso molto attuale e problematico per gli adolescenti, nativi digitali con tantissima tecnologia a disposizione e zero informazioni sui rischi e minacce. Perché la Rete, come ben sappiamo, veicola anche violenza, pornografia, bullismo, razzismo. Senza nessuna protezione. L’educazione digitale è l’anello mancante. È mancata fino ad oggi, salvo alcune belle eccezioni. Educazione digitale che scuole, istituzioni ed enti di formazione e imprese stanno rincorrendo prima che sia troppo tardi. Per informare tutti, dalle nuove generazioni ai millennials al mondo adulto, potenzialità e pericoli della Rete, ma anche delle buone norme di comportamento. E una grande attenzione alla propria privacy.
Per fare questo esistono alcuni strumenti, codificati in software e applicazioni, che consentono ad esempio il monitoraggio delle conversazioni tra utenti. Prende il nome di social listening, l’ascolto della Rete e dei sentiment che abitano la Rete, che veicolano informazioni, valori, sentimenti appunti. In pratica, servizi di social listening capaci di attribuire un sentiment alle conversazioni ed estrarre dati utili per le aziende. Accanto al listening troviamo la Netnografia, la scienza che studia le “e-tribes”, ossia le aggregazioni sociali digitali. In pratica, come le persone si comportano nelle comunità online. Vi sono inoltre ricerche sociali di tipo qualitative e svolte su base empatica, capaci di “leggere” lo stato d’animo di una persona attraverso l’empatia ed estrarre dati utili in chiave user experience e conversion rate optimization.
Sui comportamenti umani nella relazione tra Uomo e tecnologia digitale c’è tanto da studiare, e tanto altro da scoprire. I territori digitali sono oggi vastissimi e complessi, così come complesse e in evoluzione sono le interfacce digitali che consentono alle persone di interagire con le macchine e di interagire fra loro. Ecco quindi che l’antropologia digitale va a studiare i comportamenti, i bisogni e i desideri più profondi delle persone, estraendo dati utili sia ai social studies sia al marketing. Nel suo libro Marketing 4.0, Kotler parla di human centric marketing e dello studio di tribù digitali per individuare quei sentimenti latenti o nascosti che si rivelano importanti per i brand e per il mercato.
Se l’utente digitale è un animale complicato e sofisticato, saper “leggere” la Rete diventa indispensabile e imprescindibile al pari dell’estrazione dei Data, nella consapevolezza che l’Uomo resta il punto di partenza e di arrivo di ogni processo. Per questo accanto ai data scientist servono umanisti in grado di interpretare i dati, per questo occorre tornare a studiare la sociologia, l’antropologia, la psicologia e le neuroscienze. In tempi non sospetti il Direttore del Museo Egizio di Torino, Christian Greco, disse al Corriere della Sera che “per capire la civiltà digitale servono archeologi, storici e filosofi”. Mettere in relazione dati, numeri, storie, contesti, variabili sociali. È questo il lavoro che ci attende.